Nell’ambito della sperimentazione plastica attraverso la ceramica […] è una delle esperienze narrative più drammatiche dell’esperienza artistica di Ruga (anche in questo caso affiancata da opere pittoriche sullo stesso tema), ossia la serie delle Bambine di Terezin, ricordo del crimine dell’olocausto e, in particolare, della violenza cieca esercitata dalla follia umana sull’innocenza.
Le bambine sterminate nel campo di Terezin sono ricordate nella semplicità della materia, ancora una volta il grès, con semplici accenni alla loro identità di prigioniere: la stella di David, le bluse a strisce dell’internamento: i loro volti sono anonimi, identificati dai tracciati labirintici che spesso negli anni Novanta, segnano la terra delle Langhe, viste dall’alto, soggetto abituale degli ultimi anni dell’attività di Angelo Ruga.
Le parole di Ruga sono certo il miglior commento di questa drammatica testimonianza della partecipazione dell’artista al dramma della Storia attraverso una operatività artistica che è pensata come inscindibile dall’esigenza del giudizio sulla realtà e sulla Storia stessa: “Presento una nuova parentesi pittorica dedicata ai bimbi di Terezin, in quel girotondo finale che la ferocia nazista ha proposto al genere umano. A loro, che in una nube di compatta cenere, viaggiano per sempre in orbita con i satelliti spediti dall’intelligenza umana ho dedicato questi dipinti, affinché la loro voce rimbalzi sulla crosta terrestre e ricordi agli uomini la loro stessa vigliaccheria”.
Franco Sborgi (2008), Angelo Ruga: un percorso. Presentazione nel catalogo della mostra Angelo Ruga (Savona, 2008).
Nell’ambito della sperimentazione plastica attraverso la ceramica […] è una delle esperienze narrative più drammatiche dell’esperienza artistica di Ruga (anche in questo caso affiancata da opere pittoriche sullo stesso tema), ossia la serie delle Bambine di Terezin, ricordo del crimine dell’olocausto e, in particolare, della violenza cieca esercitata dalla follia umana sull’innocenza.
Le bambine sterminate nel campo di Terezin sono ricordate nella semplicità della materia, ancora una volta il grès, con semplici accenni alla loro identità di prigioniere: la stella di David, le bluse a strisce dell’internamento: i loro volti sono anonimi, identificati dai tracciati labirintici che spesso negli anni Novanta, segnano la terra delle Langhe, viste dall’alto, soggetto abituale degli ultimi anni dell’attività di Angelo Ruga.
Le parole di Ruga sono certo il miglior commento di questa drammatica testimonianza della partecipazione dell’artista al dramma della Storia attraverso una operatività artistica che è pensata come inscindibile dall’esigenza del giudizio sulla realtà e sulla Storia stessa: “Presento una nuova parentesi pittorica dedicata ai bambini di Terezin, in quel girotondo finale che la ferocia nazista ha proposto al genere umano. A loro, che in una nube di compatta cenere, viaggiano per sempre in orbita con i satelliti spediti dall’intelligenza umana ho dedicato questi dipinti, affinché la loro voce rimbalzi sulla crosta terrestre e ricordi agli uomini la loro stessa vigliaccheria”.
Franco Sborgi (2008), Angelo Ruga: un percorso. Presentazione nel catalogo della mostra Angelo Ruga (Savona, 2008).
ra il 1957 e il 1958 si compie il drastico passaggio di Ruga da una pittura figurativa di impostazione ancora accademica a un linguaggio visivo totalmente informale. Tale svolta si compie piuttosto repentinamente tra 1957 e 1958 e si traduce in soluzioni visive sostanzialmente differenti dall’ultimo naturalismo che come è noto caratterizza una parte della corrente informale italiana. Per meglio dire: per Ruga la natura è sempre il riferimento principale, ma non in termini di restituzione sensibile dei valori materici e coloristici riconducibili a proiezioni liriche o empatiche del paesaggio. Risulta piuttosto evidente come nei suoi primi esperimenti informali egli affidi a tratti di colore piatti e determinati la forza comunicativa dell’immagine.
Segni (o aggregazione di segni) che preludono alla sintesi grafica dei successivi esiti maturi neofigurativi, e che in questa fase conservano una sorta di pulizia del gesto.
Ancor più nelle opere del 1960-62 (fra cui molte carte, che denotano una fervida attività di sperimentazione), questo segno significante si irrobustisce fino a diventare più corposo e sciolto, evidentemente gestuale, volutamente nero (o bianco, per contrasto manicheo e simbolico, non gestaltico).
Si tratta certamente di una fase circoscritta, che tuttavia segnala inconfutabilmente la maturazione di precisi stimoli esterni che iniziano ad essere ora interiorizzati dall’artista.
Tali sollecitazioni esterne, captate dall’ormai trentenne Ruga, sono da individuarsi ancora una volta nel ricco bouquet di mostre che le gallerie torinesi offrono in quegli anni, e più precisamente in due versanti complementari della ricerca contemporanea astratta: da un lato la pittura segnica e gestuale italiana, europea e americana (Scanavino, Crippa, Fontana, Capogrossi, Accardi, Wols, Hartung, Mathieu, Tobey, Kline, Twombly), e dall’altro quella delle avanguardie giapponesi.
Luca Bochicchio (2021). Angelo Ruga. Sulla soglia del labirinto. Pistoia: Gli Ori. pp. 55-56.
Sul finire degli anni Settanta nella pittura di Ruga si afferma una soluzione linguistica originale, volta a sintetizzare in ripetuti segmenti paralleli gli appezzamenti di terreno, le colture, le macchie di bosco che, nel loro integrarsi lungo le dolci colline delle Langhe, si offrono allo sguardo come un insieme eterogeneo di colori e consistenze. L’occhio del pittore indaga e sollecita quotidianamente questo tipo di paesaggio, cercando di restituire sulla tela una sorta di unitarietà di visione, affidandosi essenzialmente a linee e colori. In un procedimento metodologico che affonda le radici nella rivoluzione paesaggistica moderna, dagli impressionisti in avanti, la ricerca di Ruga trova concretezza nella ripetizione ossessiva e nella sintesi.
Precisi scorci langaroli, individuabili spesso anche dai titoli delle opere, si ripropongono in apparentemente infinite e minime varianti. Prende così forma quella sorta di reiterazione astratta e sintetica di paesaggi familiari, che concettualmente può essere giustificata dal costante tentativo di risolvere un labirinto, fatto appunto di percorsi concentrici di linee spezzate, in un ideale itinerario erratico mentale. L’inganno che questo metodo sembra voler svelare è l’eterno enigma della natura.
Da uno sguardo complessivo sui lavori eseguiti lungo gli anni Ottanta, si percepisce tuttavia un mutamento di registro espressivo. Accanto infatti alle serie oramai centrali nel discorso figurativo di Angelo (le bimbe di Terezín, i Giochi d’amore, il paesaggio circolare, personaggi, alberi e insetti, etc.) emerge una pittura per certi versi tetra, basata sulla metamorfosi tra la collina e i corpi femminili. I timbri cromatici appaiono fortemente contrastanti, insetti e rettili campeggiano tra elementi del paesaggio tradotti in cupe campiture cromatiche. Le linee sono meno risolte e definite, si fanno spezzate e incerte, e il senso generale che se ne trae è forse quello di una crisi personale e individuale.
Un vento di inquietudine sembra sconvolgere le ricerche visive condotte con coerenza fino a quel momento. A bilanciare tale condizione di relativa regressione, l’espressionismo di questo periodo imbocca una via di contaminazione con una vivace, seppur inquieta, estetica pop, là dove figure oramai archetipiche di cani, teschi e insetti si stagliano su fondi piatti, ripetuti e colorati in modo squillante e antinaturalistico.
Luca Bochicchio (2021). Angelo Ruga. Sulla soglia del labirinto. Pistoia: Gli Ori. p. 173.
Nei primi anni Sessanta ad Albissola Marina, Ruga dipinge quadri figurativi, soprattutto ritratti e paesaggi. Ne è un esempio la bella veduta di via Stefano Grosso dall’ingresso dello studio dell’artista, o la panoramica di Piazza del Popolo, dove hanno sede sia il famoso caffè degli artisti, il Bar Testa, sia il Municipio di Albissola Marina. Questo dipinto è riprodotto nel n. 3-4 del periodico genovese “Arte Stampa” (1955).
Anche per i ritratti Ruga attinge alla vita di paese, dipingendo amici e passanti, come ad esempio i giovani chierichetti che, al seguito del parroco, passano spesso da via Stefano Grosso per raggiungere la chiesa del paese.
Dalle testimonianze degli amici sappiamo che all’epoca, tra i soggetti prediletti da Ruga vi sono anche figure fantastiche e immaginarie, come ad esempio le donne-gatto modellate in ceramica a partire dai vasi realizzati alla CEAS. È a questo tipo di immaginario che probabilmente si riferisce Emilio Zanzi, nel testo introduttivo alla prima mostra personale che Ruga tiene alla Galleria Sant’Andrea di Savona, nel 1954, quando parla di “surrealismo” di “carattere magico”.
Luca Bochicchio (2021). Angelo Ruga. Sulla soglia del labirinto. Pistoia: Gli Ori. p. 33.
Lo sguardo […] sul paesaggio forse non basta più a rasserenare, nonostante sia sempre più ricondotto, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, dall’osservatorio aereo di Clavesana, alle sue forme essenziali – primarie vorremmo dire, di pura sensibilità cromatica e lineare, come lo si può cogliere nell’ordine geometrico dato dall’uomo alla terra nell’ininterrotto scorrere delle colline delle Langhe.
A questo mondo in sospeso fra onirico, realtà e mito, e forte coscienza delle inquietudini del tempo presente, appartiene con tutta evidenza quella galleria di personaggi, così legati alla realtà della terra e, allo stesso tempo, al suo substrato mitico, siano essi gli spaventapasseri, gli Arlecchini-poeti, le Madame, o i più inquietanti samurai che accompagnano “i guerrieri del nostro tempo”: sculture polimeriche che Ruga realizza negli anni Settanta proponendo un doppio piano d’immagine che si giova contemporaneamente tanto della semplicità dell’intaglio – nella scarnificazione approssimata del legno, richiamo alle sculture contadine o ai burattini delle compagnie girovaghe –, quanto del recupero di frammenti e reperti che rimandano ugualmente a un mondo quotidiano popolare: la gabbia, gli attrezzi contadini, i vestiti strappati degli spaventapasseri, o, più inquietanti, i vecchi elmetti militari: memorie, come la maschera a gas, di lontane e drammatiche storie.
Franco Sborgi (2008), Angelo Ruga: un percorso. Presentazione nel catalogo della mostra Angelo Ruga (Savona, 2008).
Gli spaventapasseri nascono […] come simulacri, attraverso i quali l’artista demiurgo genera il proprio doppio. Essi vengono documentati e raccontati dal loro creatore con la pittura, l’incisione e la parola, in un evidente processo mitopoietico che si autoalimenta generando memoria si sé. Alcuni indizi, al di là di ogni scontata interpretazione, informa- no che in alcuni casi si tratta di autoritratti. Ruga ha restituito alla terra che ha abitato – Mongreno – l’incarnazione degli spiriti autentici che vi ha incontrato e, tra questi, ha voluto ricordare anche sé stesso. Possiamo intuirlo combinando i titoli di alcune sculture con i ritratti fotografici che Augusta Lovera esegue di Angelo, contestualmente alla serie di scatti che immortalano gli spaventapasseri.
Ruga appare abbigliato e atteggiato come una precisa tipologia di figure, quella dell’arlecchino-poeta che si ritrova nei quadri Poeta arlecchino, Una domenica in collina, Evocatore di suoni, Il poeta e il pettirosso, Poeta attraversato da una collina e nell’unica scultura lignea di questa serie sopravvissuta fino a noi: I giochi del poeta. Inevitabilmente, tornano alla mente gli arlecchini suonatori dipinti nella soffitta di Piazza Maria Teresa alla fine degli anni cinquanta, opere di un realismo magico alla Donghi venate di una malinconia che affonda le radici ancora più indietro: nei saltimbanchi di Picasso del periodo blu e rosa. La figura del poeta come solitario teatrante girovago si conferma così un motivo centrale e auto-riflessivo nella poetica di Ruga.
Luca Bochicchio (2021). Angelo Ruga. Sulla soglia del labirinto. Pistoia: Gli Ori. pp. 135-137.
Il rapporto di Ruga con il mondo del pallone ha origini lontane: da ragazzino giocò nelle giovanili della Juventus, nonostante il suo ‘granatismo’, termine che indica la passione viscerale e smisurata per la maglia che indossano i calciatori dell’altra grande squadra che disputa le proprie partite casalinghe all’ombra della Mole. Dopo l’esperienza in Promozione con la U.S. Lanzese, il calcio lo portò dapprima in Basilicata, tra le fila del Potenza che nella stagione 1950-1951 militava nel campionato di Serie C, poi nel Centro Italia tra Toscana, Umbria e Marche, ed infine ad Albissola Marina, dove venne chiamato a giocare nell’estate del 1954.
[…] La promettente carriera artistica di Ruga – che grazie alle esperienze albissolesi e con il successivo ritorno a Torino (1956) si stava consacrando come ascendente protagonista nel panorama dell’arte informale – mise in secondo piano quella da calciatore, ma l’interesse per il pallone, antica passione, non venne mai meno. Con l’aiuto del giovane Marco, figlio della compagna Ada Rossi, Ruga aveva convertito in un campo da calcio una spianata vicino alla casa sulla collina di Mongreno (Torino) presso la quale si trasferì a partire dal 1961-1962, la stessa che fu protagonista delle celebri fotografie scattate da Augusta Lovera tra il 1973 e il 1975 che immortalano gli Spaventapasseri, imponenti sculture composte da materiali di recupero modellati dall’artista.
Una decina di anni più tardi e in parallelo rispetto alle ricerche grafico- pittoriche sui Giochi, fa la sua comparsa il tema del calcio, che prima di allora non era mai entrato in maniera pregnante nella produzione artistica di Ruga, pur avendo rivestito una grande importanza nella sua vita. L’artista affronta questo tematismo da un punto di vista estremamente personale, fedele al proprio percorso di ricerca artistica. Probabilmente ispirato dal Campionato del mondo di calcio del 1986, nel quale l’Argentina di Maradona alzò la coppa più prestigiosa al termine della sfida contro la Germania Ovest, Ruga iniziò una serie di disegni e dipinti dedicati agli stadi, affrontati sinteticamente e in maniera espressiva, tensionale e dinamica piuttosto che naturalistica o descrittiva.
La rivincita della finale di Messico ‘86 ebbe luogo quattro anni più tardi, in occasione della Coppa del Mondo ospitata in Italia. In vista della competizione – poi vinta dalla nazionale tedesca che si impose per 1 a 0 contro l’Albiceleste – furono previsti radicali interventi di adeguamento e ristrutturazione dei principali impianti sportivi italiani e di conseguenza ci fu grande attenzione mediatica. Gli stadi studiati e dipinti da Ruga, caratterizzati dalla comune forma ellittica ereditata dal modello delle teste, dei volti e dei busti delle Bimbe di Terezín, richiamano alla mente proprio una delle architetture concepite per accogliere alcune partite di Italia ‘90: l’avveniristico Stadio delle Alpi di Torino, edificato nel giro di due anni alle porte di Venaria, nell’area della Continassa, e adottato fino al 2006 come terreno casalingo dalle due squadre del capoluogo piemontese che militavano nella massima divisione.
Con la serie La ragazza del calciatore, quattro oli su tela realizzati nel 1991, Angelo Ruga racconta l’universo del pallone concentrando la propria attenzione esclusivamente sulle architetture destinate ad accogliere i tifosi (puntiformi) e ad ospitare le partite. In questa serie di dipinti i tratti circolari che delineano le strutture assumono le sembianze di un busto femminile, che la titolazione ci porta ad interpretare come omaggi alla compagna (e poi moglie, a partire dal 13 ottobre 1975) Biagia Baccani (1933-2015), innamoratasi del Ruga calciatore dell’Unione Sportiva Albissola negli anni Cinquanta.
[…] Nell’estate dello stesso anno dell’epica sfida passata alla storia come «Novecento contro Centoventi», Angelo Ruga scendeva in campo davanti ad un migliaio di sostenitori accorsi allo stadio Faraggiana di Albisola per assistere al «Grande scontro calcistico» tra le comunità artistiche di Calice Ligure (formatasi intorno alla carismatica figura di Emilio Scanavino) ed Albissola: quest’ultima, capitanata da Agenore Fabbri e trascinata dalla «belva» Gianmariani, si impose per 2 reti a 1, vendicando un precedente e mai digerito 1-4. La memorabile partita tra artisti – raccontata da uno speaker d’eccezione, Milena Milani – andò in scena la sera di San Lorenzo del 1975, un anno cruciale per Ruga, segnato dalla morte di Ada, dal suo trasferimento nella cittadina ligure e dal matrimonio con Biagina Baccani.
Gli scorci langaroli, riprodotti ossessivamente dall’artista nell’ultimo ventennio di vita (ed in particolare a seguito del trasferimento a Clavesana nel 1993) reiterando nelle sue tele segmenti paralleli che in maniera sintetica, geometrica e astratta raccontano l’eterogeneo paesaggio collinare piemontese, diventano protagonisti delle ultime ricerche sul tema del pallone intorno alla metà degli anni Novanta: nell’opera Campo di calcio in Langa un bidimensionale rettangolo di gioco sterrato (inscritto in una spessa pennellata scura che richiama alla mente la serie di lavori sugli stadi), nel quale sono facilmente riconoscibili le aree di rigore, la linea mediana e il cerchio di centrocampo, si staglia in secondo piano rispetto ad un reticolato di fascine e colture sinteticamente descritte per accostamenti di colore. […]
Daniele Panucci (2021). L’ultima rappresentazione sacra. in “Gioco informale. Angelo Ruga”. I quaderni della lavanderia n°5.