Presentazione nel catalogo della mostra Angelo Ruga (Savona, 2008)
La molteplicità delle opere che Ruga ci ha lasciato sembra solo in parte capace di spiegare l’articolarsi complesso di una personalità che ha svolto con costante tenacia il suo lavoro d’artista per quasi mezzo secolo. Le testimonianze critiche che hanno seguito sin dai primi anni Cinquanta il suo lavoro ci parlano infatti di momenti di ricerca che ormai possono essere solo supposti attraverso tracce che e hanno lasciato nelle opere successive.
Queste stesse testimonianze del resto ci parlano costantemente dell’intensità operativa dell’artista (ricordava lo scultore Sandro Cherchi nel 1971: «lassù nel suo grande studio – quello di Mongreno – dove i quadri si allineano in bell’ordine, in file incredibili») ma, anche, del profondo spirito critico che portava Angelo Ruga a distruggere le opere che per i più diversi motivi non risultassero congrue alle sue esigenti attese di ricerca. Armando Capri ricorda, in uno scritto del 1966, che «le sue stufe d’inverno funzionano ottimamente anche con decine di tele e di dipinti frantumati e distrutti»: uso che del resto, a sentire amici e familiari, non si interruppe sino alla fine.
Poco si sa del periodo di formazione nella Torino dell’immediato dopoguerra, a cavallo tra anni Quaranta e Cinquanta, dove frequenta il liceo artistico e l’Accademia Albertina […]. Tracce più puntuali vengono dalle parole di un critico acuto come Emilio Zanzi che nel 1954 presenta la prima personale di un Ruga ventiquattrenne alla Galleria S. Andrea di Savona. Zanzi, che dice di aver conosciuto Ruga ad Albissola Marina, ne coglie sin dall’inizio le capacità e soprattutto il suo distaccarsi dalla dimensione più tradizionale della cultura torinese, in nome di un realismo visionario che sembra unire esperienze diverse. Zanzi – che intitola la sua presentazione Realismo e Surrealismo nell’arte di Angelo Ruga – vi coglie quelli diversi influssi, da quelle del realismo magico di Italo Cremona, docente dell’Albertina, fino alla visionarietà di Marc Chagall, che certo Ruga poteva aver visto nella recente mostra torinese sull’artista organizzata da Vittorio Viale. Ma al di là delle possibili suggestioni originarie indicate, Zanzi individua sin dall’inizio quella che sarà una delle caratteristiche di tutto il percorso artistico di Angelo Ruga, ossia la capacità di cogliere la forza del dato naturale senza perdersi in un naturalismo descrittivo, procedendo in termini di sintesi e facendo fuoriuscire dal reale quelle componenti oniriche che lo rendono capace di trasmettere più interne emozioni.
[…] L’esperienza informale di Ruga ha forti componenti gestuali e talvolta materiche, come del resto dimostrano le stesse opere qui in mostra, appartenenti in gran parte agli anni Sessanta […]: anche se è tutt’altro che assente l’aspetto segnico […], che diventerà elemento ricorrente e rilevante nella nuova visione della natura che Ruga rielaborerà dopo questa esperienza di riflessione sulle strutture del linguaggio. […] Quando Ruga ritornerà […] al paesaggio, come ad esempio in opere quali Le vigne del cielo […], ciò avverrà con una visione dinamica tensionale, che mette in evidenza la linfa energetica della natura, in una dimensione che variamente si allontanerà dalle componenti descrittive. Ciò coinvolgerà in parte la stessa rappresentazione della figura […], tradotta nei suoi tratti essenziali, attraverso la drammatizzazione del segno e del colore che ne divengono strutturale elemento di definizione.
Questa costruzione libera e magmatica dell’immagine (si veda Senza Titolo, Mongreno 1970 […] o, per il paesaggio, Senza Titolo, 1969 […]), saprà accogliere con altrettanta scioltezza l’incontro fra dimensione naturalistica e dimensione visionaria: si vedano i paesaggi fra anni Sessanta e Settanta in cui compaiono inquietanti insetti […] o immagini di mostri che traspaiono nel magma naturale del sottobosco […]. Questo incontro fra natura e sogno sembra essere, come si diceva, un elemento fisionomico, identificante, nell’opera di Ruga, sia che faccia da base al profondo e continuo dialogo affettivo fra l’artista e il paesaggio, sia che preannunci, attraverso il mostro o l’insetto, inquietudini affioranti nell’apparente idillio della natura: a segnare un più ampio disagio esistenziale dell’artista nei confronti del tempo presente. […]