In Luca Bochicchio (2021). Angelo Ruga. Sulla soglia del labirinto. Pistoia: Gli Ori. pp. 161-169
Nella lunga vicenda del paesaggismo piemontese, un posto di rilievo – anche se per certi aspetti appartato e indipendente – spetta, nella seconda metà del Novecento, ad Angelo Ruga.
Sul finire del periodo di Mongreno che abbraccia buona parte degli anni ’60 e il primo periodo del decennio successivo, l’attenzione di Angelo Ruga nei confronti del paesaggio si accresce. È l’avvio di una riflessione sulla fisionomia dell’ambiente terrestre, sulle modificazioni introdotte dagli interventi dell’uomo, in specie dalle colture che frammentano il continuum naturale, liberandolo – nella contemplazione a distanza – dalle determinazioni materiali di inerzia, solidità, resistenza.
Si potrebbe ipotizzare che si tratti di un’anticipazione visuale dell’idea che sarà proposta, anni più tardi, da Gilles Clement, con la teorizzazione del “jardin planetaire”. Questa congettura che lega il paesaggio al pianeta e al giardino, seppur rustico, può consentire di leggere nei dipinti realizzati a Clavesana attorno alla metà degli anni ’90, dove l’unità viene scomposta, la compattezza frammentata, il peso del suolo tramutato in leggerezza aerea. Se il paesaggio è, come adombrava Merleau-Ponty, “il corpo della terra” o quanto meno la sua pelle, è al tempo stesso l’habitat naturale, oltre che di una fauna ripetutamente ritratta, del corpo umano. Un aspetto, questo, cui Angelo Ruga si è mostrato sensibile, dando vita, negli anni ’70, alla sequenza degli Spaventapasseri, popolari abitatori e guardiani di coltivi e vigne. Ma nelle immagini di questi manichini, profondamente radicati nella cultura contadina, l’artista sembra veicolare una visione ischeletrita e dolente dell’uomo, rabberciata con materiali di riporto, per lo più lignei.
A queste immagini, scarne e tormentate, fa riscontro l’erotismo drammatico dei Giochi d’amore, ceramiche in grés realizzate a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, foggiate in posture convulse di arti squadrati, dove le bocche si schiudono ad un parossismo di piacere che sembra convertirsi in spasimo e le membra si tendono esacerbate nella ricerca di una fusione irraggiungibile.
Il luogo, però, in cui più acutamente si concentra la riflessione espressiva di Angelo Ruga sulla ferita che il male e la violenza incidono nella coscienza umana, “l’ultima stanza” in cui con raccapriccio dobbiamo entrare per scandagliare gli abissi di efferatezza della nostra specie, è costituito dalla serie, ampiamente nota, delle sculture dedicate tra il 1986 e il 1992 alle Bambine di Terezin, travolte “in quel girotondo finale che la ferocia nazista ha proposto al genere umano”.